Esattamente stasera ricorrono i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, che in pochi sanno essere stato battezzato Durante di Alighiero degli Alighieri, poiché universalmente noto con il solo nome Dante, nato a Firenze, tra il 21 maggio e il 21 giugno 1265 e appunto morto a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321.
Il padre della lingua italiana, massima espressione della cultura medievale italica, linguista del dolce stilnovo, teorico della politica attiva, filosofo cristiano.
La sua tomba è in romagna, a Ravenna.
Il Sommo Poeta autore della Commedia, la cui nuova spiritualità cristiana unita alla passione politica e agli interessi letterari del poeta, la resero da subito, grazie a Boccaccio, “Divina”.
La Dottrina Cattolica ha beneficiato molto dalla visione plastica e poetica del mondo della Vita oltre la Morte così come venne da lui impostata e architettata in versi eterni.
Troppo ricordano l’inferno, ma le cantiche più belle, in un climax ascendente sono certamente il Purgatorio prima ed il Paradiso soprattutto.
Scrisse il De Vulgari Eloquentia e il De Monarchia, opere che ho apprezzato in maniera unica: dove la retorica, la visione del diritto e la filosofia politica del Sommo vennero ben ieratizzate.
Lo ricordo in un poco noto dipinto di Andrea Pierini, “Dante legge la Divina Commedia alla corte di Guido Novello”, dipinto a olio nel 1850, oggi custodito a Palazzo Pitti nella Galleria D’Arte Moderna di Firenze.
Nota vanitosa immancabile: nel XXVII Canto infernale, menziona la mia amata Imola, riferendola nella descrizione de «Le città di Lamone e di Santerno conduce il lïoncel dal nido bianco, che muta parte da la state al verno.» Nei versi centrali del canto, parla della condizione politica della Romagna, in quel Canto XXVII, “dove tratta di que’ medesimi aguatatori e falsi consiglieri d’inganni in persona del conte Guido da Montefeltro”, così diceva un commentatore anonimo del Trecento.
Imola viene indicata con Faenza, entrambe rispettivamente dai loro fiumi, il Lamone e il Santerno, le due città erano retre da Maghinardo Pagani da Susinana, cioè sotto quello che ha per scudo il leone in campo bianco.
Maghinardo mutó “parte da la state al verno” (v. 51), cioè che cambiava da guelfo a ghibellino da stagione a stagione, infatti si comportava da guelfo con i fiorentini e da ghibellino con i romagnoli per questioni di convenienza politica, ed è per questo che viene collocato fra i politici falsari, subito prima della bolgia di coloro che creano scismi e discordie.
Quanto è contemporaneo, forse!
Ben lontana da quel verso con cui Dante racchiude il significato dell’intera opera, di Dio, dell’universo e dell’amore che è il meccanismo del mondo e di tutta la vita umana e divina.
Nicolas Vacchi